La barca scivola veloce sull’acqua lenta del fiume Gambia. Si ferma poco prima di una piccola rapida. Sono lì. Ne conto otto. Ippopotami: proprio quello che speravo di vedere. A pelo d’acqua si scorgono le orecchie tonde e le narici… e li si sente soffiare. Ci guardano. Poi all’improvviso, uno di loro salta fuori e fa una specie di tuffo, mostrando tutto il suo sederone… Troppo bello. Non siamo venuti in Senegal per vedere gli animali. Ma una puntata al Niokolo-Koba National Park l’abbiamo fatta. E abbiamo fatto bene. Abbiamo visto tre gruppi enormi di babbuini: femmine, piccoli, grandi maschi, sono centinaia. Davvero una visione sorprendente. E poi antilopi, diverse famiglie di facoceri e monumentali termitai. Dormiamo in un campement, una decina di capanne spartane, vicino al fiume. Così, proprio sotto al campo, ci godiamo i coccodrilli dormire e le gazzelle abbeverarsi: un pezzo di natura selvaggia che ci fa entrare in un mondo a parte, con la sensazione strana di essere tornati alle origini.
Ecco questo viaggio mi sembra proprio questo: tornare indietro e riscoprire quella lentezza e semplicità che abbiamo completamente perso. Accade anche in altri posti dell’Africa. Ma qui, alla natura selvaggia, si somma un popolo veramente accogliente, che ama chiacchierare. Così facciamo continuamente amicizia e la sera al buio sotto le stelle parliamo per ore con i nostri ospiti: del loro paese, delle tradizioni, della natura, ma anche di politica e di povertà. È un tempo, questo serale, che non avevo previsto e che diventa sempre più interessante e sorprendente man mano che ci allontaniamo dalle cittadine, verso i villaggi del Senegal Orientale, il “Senegal du profondeur”, dove siamo diretti. Ma facciamo un passo indietro.Quando ho incontrato la signora Chen, aveva ottant’anni. O almeno così ci hanno detto in un inglese stentato. Era cresciuta in un villaggio della minoranza Miao nel Guizhou uno stato prevalentemente rurale e poco conosciuto del Sud della Cina.
Appena atterrati all’aeroporto di Dakar decidiamo di andare a Toubacouta, nel Delta del Sine Saloum. Qui la natura è travolgente: il fiume si divide in tanti rami e lungo le sponde, una intricata selva di mangrovie crea geometrie quasi spettrali. I baobab svettano. Hanno tronchi grandissimi nei quali ci si può avventurare. Sono alberi mitici dove, una volta, i griot, i cantastorie e poeti che conservano la saggezza degli avi, venivano seppelliti. Anche i fromager sono alberi enormi, di una bellezza disarmante. Ne incontriamo uno antichissimo. Sono rapita, mi sembra come di avvertirla questa energia primordiale: un’energia femminile, creatrice e feconda. Il bello però deve ancora venire: la sera al tramonto andiamo con una piroga colorata in un angolo sperduto del delta, mentre il sole sta tramontando. C’è una isoletta. È il rifugio notturno di centinaia di aironi, garzette, pellicani e altri uccelli. All’improvviso arrivano, in gruppi e atterrano sulle mangrovie. E’ uno spettacolo potente, primitivo e selvaggio. Gli uccelli colorati e schiamazzanti, il cielo rosa e rosso e il fiume immobile. Questo è il benvenuto che ci riserva il Senegal.
È da qui che partiamo alla volta del parco Niokolo-Koba di cui ho già detto. E di lì lungo una strada a tratti non asfaltata, dove la terra rossa ricopre ogni cosa, andiamo verso la nostra destinazione: i villaggi animisti Bedik e Bassari.
La strada è lunga per arrivare a Kedougou e il traffico è molto pesante: camion carichi all’inverosimile viaggiano verso sud portando ogni genere di merce. Molti sono rovesciati lungo la strada e non si sa cosa ne sarà di loro.
Quest’area dell’estremo sud est del Senegal a pochi chilometri dal confine con la Guinea, è una zona bellissima e poco frequentata. Da Kedougou c’è ancora molta strada da fare, sempre su strada di terra rossa. La pianura ora diventa collina, e si attraversano villaggi rurali, fatti di capanne circolari di fango con i tetti in paglia. Il tempo qui sembra essersi fermato. Le donne vanno ai pozzi a prendere l’acqua. Hanno tutte un bimbo appeso sulla schiena e colorano con i loro variopinti abiti la savana. I bambini appena arriviamo ci corrono incontro. Hanno occhi grandi e sorrisi che aprono il cuore. Ci tendono la mano e così di villaggio in villaggio ci portano a conoscere gli anziani. Qui contano davvero. Sono la sapienza e la tradizione e sono ascoltati e onorati da tutti. Veniamo così benedetti da una donna novantenne cieca, mentre decine di bambini urlano il nostro nome. È strano far parte di un rito che non conosciamo, ma che in qualche modo ci appartiene, perché riguarda la nostra umanità, il nostro essere umani e basta.Le prime aperture verso il resto della Cina qui sono cominciate dalla metà degli anni 80. Prima questi villaggi erano ancora più isolati, chiusi nel loro mondo.
In ogni piccolo villaggio c’è qualcosa da imparare, di cui fare esperienza, sotto l’occhio attento di un fromager o di un baobab. Impariamo tradizioni antiche, conosciamo maschere e rappresentazioni di dei e forze della natura. Ci bagniamo sotto le acque gelide di una cascata altissima in mezzo alla foresta, mentre donne seminude e vocianti fanno il bucato, battendo i panni. Il sorriso scanzonato delle diverse guide del posto, ci ricorda che siamo comunque toubab, bianchi. E che anche se cerchiamo di carpire ogni segreto e comprendere ogni simbologia, restiamo turisti occidentali in visita a Badian, Etiolo, Iwol, Afia, Dindefelo…
Il fascino di queste terre e di queste persone che non hanno luce, acqua corrente, il cui primo dispensario medico è a chilometri di distanza, è palpabile. Il ritmo di vita immediatamente diventa quello della natura: luce, buio, fame, sonno.
I racconti serali si amplificano da queste parti. La curiosità è nostra, ma anche loro. Un punto di contatto che ci accomuna: voler saper dall’altro, cosa c’è oltre il fiume, oltre la collina, e far volare l’immaginazione verso un mondo che, da entrambe le parti, possiamo solo intuire. Così il racconto della visita inaspettata di un leone, la descrizione dei costumi dei guerrieri il giorno dell’iniziazione, la spiegazione del fuoco nella foresta che di notte la illumina a giorno, e dei figli che nascono numerosi e spesso scelgono di andare via, diventano il testo di un’epica contemporanea, una sagra semplice e intensa di un esistere da sempre e per sempre. Così ripartiamo, carichi di nuove spunti per pensare a noi e al nostro tempo, a come lo impieghiamo, se siamo davvero felici, se vorremmo fare altro, cambiare e vivere in modo più vero e sincero.
Il ritorno a Dakar è un lungo lento addio a questi ritmi. Rivediamo villaggi e baobab e donne al pozzo e bambini che corrono urlanti. Solo una visione ci allontana dai nostri pensieri: il mercato del bestiame. Nel mezzo di niente, spuntano migliaia di montoni bianchi, di capre e poche mucche governate e condotte da decine di uomini vestiti di blu. Scendiamo dall’auto e ci avventuriamo sotto lo sguardo divertito e a volte infastidito dei mercanti. Qualcuno ci offre una capra, da trasportare sul tetto della macchina, come usa fare qui. Decliniamo l’offerta: Dakar è ancora lontana.
La capitale ci accoglie con il suo traffico, il suo cemento e la sua povertà.
Ma sulla spiaggia di Yof ritroviamo il nostro Senegal. Decine di persone aspettano schiamazzanti e colorate l’arrivo dei pescatori, mentre bambini e ragazzi lavano le loro capre bianche nell’acqua salata dell’Atlantico.
Immagini, odori, suoni si mescolano in una miscela forte e a tratti illuminante. Pensieri intermittenti quanto profondi mi fanno sentire con altri sensi. È questo che sto cercando? Conoscere realtà sempre nuove, mettere a confronto filosofie e pensieri, comprendere con altri occhi il presente e il suo senso, intuire così il mio percorso e il mio destino? Penso proprio di sì, penso di averlo sempre saputo. Penso sia venuto il momento di renderlo storia.
È questa dunque la mia iniziazione animista senegalese?
Non lo so o forse lo so fin troppo bene. Così mi lascio scuotere e perdere dal suono di decine di tamburi e djembe sulla bellissima spiaggia di Toubab Dialaw. Intorno al fuoco, si balla, sul confine del ritmo che divide davvero l’Africa e l’Occidente. Tra creatività spontanea e necessità, nuove spiritualità e sorrisi che non finiscono mai.
Sì il mal d’Africa esiste davvero.